Come si scrive un romanzo giallo. Intervista al giallista Paolo Roversi

Come si scrive un romanzo giallo. Intervista al giallista Paolo Roversi

Il giallo segue regole e tecniche narrative ben precise nella costruzione dei personaggi, dell’ambientazione, della struttura narrativa e della suspence: servono molta ricerca e un metodo di lavoro.

11/09/2023 , tempo di lettura 3 minuti

Fra i generi letterari più amati e comprati in Italia il giallo continua ad avere il suo posto d’onore. I suoi lettori sono esigenti e attenti ai dettagli, in quanto il consumo che fanno di storie crime non si limita solo ai libri, ma comprende anche film, serie TV e podcast. 

Un bravo narratore sa come servire ai suoi lettori una storia avvincente pagina dopo pagina, con indizi e colpi di scena in un gioco di ritmo e tensione narrativa costanti. Ma come si scrive un romanzo giallo che funzioni?

Ne abbiamo parlato con lo scrittore di gialli Paolo Roversi, curatore e docente della nostra Crime Factory, in partenza il 4 ottobre.


Come è nata la tua fascinazione per il genere giallo? 

Tutto è cominciato quando ero adolescente, durante un’estate di tanti anni fa: ancora non c’era internet e si leggeva perché non c’era molto altro da fare! La fascinazione è avvenuta con i romanzi di Agatha Christie. Mia madre aveva tutta la serie e il primo che ho letto credo sia stato Poirot a Styles Court: questo romanzo, con l’investigatore privato Poirot, è rimasto anche uno dei miei preferiti. Da lì, ho letto tutto quello che Agatha Christie aveva scritto; poi sono cresciuto e sono passato agli altri, ma sono partito dalla “Regina del Giallo”.

A proposito di Poirot, una delle caratteristiche ricorrenti del giallo sta proprio nella serialità e il genere stesso è caratterizzato da regole ben precise: durante i tuoi anni da scrittore, le hai vissute come una traccia da seguire e con cui poter giocare, oppure come una costrizione?  

La serialità è una delle armi vincenti del giallo. Fa la sua apparizione sin dagli inizi del genere, pensiamo a Sir Arthur Conan Doyle con il suo fantastico Sherlock Holmes; Agatha Christie, non solo con Poirot ma anche con Miss Marple; poi Simenon con il commissario Maigret; fino ad arrivare ai giorni nostri con tutti gli autori italiani come Scerbanenco, Maurizio De Giovanni, Antonio Manzini. Il giallo piace quando è seriale perché è rassicurante: il lettore si trova sin dalla prima pagina un protagonista che è come fosse un vecchio amico, lo riconosce e si sente a casa, ed è pronto a farsi raccontare ancora una volta delle sue avventure. Spesso però, il personaggio seriale diventa problematico, per questo nella mia serie di romanzi con Enrico Radeschi, scritta per Marsilio Feltrinelli, ho fatto delle scelte. Innanzitutto, il mio personaggio invecchia, non è statico come un Maigret di Simenon cristallizzato nel tempo. E, man mano che invecchia, c’è un’evoluzione del personaggio e con lui anche la sua città, Milano, cambia. In seconda battuta, ho scelto di non limitarmi a scrivere un’unica serie ma di dedicarmi anche ad altro: oltre a Radeschi, ho scritto altre storie, serie diverse e mi sono anche dedicato ad un pubblico più giovane con il Battello a Vapore. Il seriale va bene, ma nelle giuste dosi, per non far stancare i lettori del tuo protagonista.

Hai citato Milano. Che ruolo ha l’ambientazione nei tuoi romanzi?

Io ho scritto 18 romanzi, quasi tutti ambientati a Milano, che assolutamente è coprotagonista e ha lo stesso valore simbolico dei protagonisti. Le mie storie sono così legate alla città che in un altro posto non avrei potuto raccontarle, perché non funzionerebbero. Milano è un palcoscenico così perfetto per un romanzo che non puoi non raccontarla, ha tanti quartieri, caratteristiche diverse: c’è il Quadrilatero della moda; la movida sui Navigli; è una città piena d’arte a La Scala, al Duomo, all’Accademia di Brera; c’è la finanza perché abbiamo la borsa. E man mano che scopro questa città e incontro delle particolarità le racconto, le inserisco nei romanzi perché aiutano il lettore a immergersi, a sentirsi lì. Alcuni vengono apposta: del resto con Feltrinelli, lo scorso giugno, ho fatto anche il tour dei luoghi dei miei romanzi e ho parlato veramente di tutta la città, perché davvero continua a darmi ispirazione.

Spesso nel romanzo giallo incontriamo protagonisti fuori dagli schemi, né interamente positivi né negativi, come ad esempio Sherlock Holmes. Come si costruisce, secondo te, un buon personaggio? 

Noi chiamiamo “commissario cliché” quel commissario di polizia che riveste tutti i cliché possibili: troppo buono o troppo cattivo, troppo maledetto o un Don Matteo! Credo che la credibilità di un personaggio si misuri attraverso la sua sofferenza: deve avere una ferita, un problema, come d’altronde l’abbiamo tutti noi nella vita. Se ci pensate, Sherlock Holmes era cocainomane perché si annoiava; Rocco Schiavone di Antonio Manzini ha perso la moglie e parla con il suo fantasma; in Maurizio De Giovanni il Commissario Ricciardi ha questa cosa che vede gli ultimi minuti della vita delle vittime. Nel mio ultimo libro, Alla vecchia maniera, il mio protagonista, il commissario Botero, è antitecnologico. Ha subito un incidente e non può utilizzare niente di tecnologico: non può usare un cellulare, il computer, prendere i mezzi pubblici, eppure investiga nella Milano di oggi, che dalla tecnologia è invasa e quindi deve fare il doppio della fatica. Nella lettura proviamo più empatia per un personaggio quando questo è umano, con difetti e problemi. Senza esagerare, ovviamente.

Nasce prima il delitto o il personaggio? 

È importante non trascurare niente. Nel fare questo mestiere, mi sono reso conto che come autore devi sapere già chi è il colpevole e come va a finire per non perderti per strada. Solo in questo modo puoi fare andare il lettore dove vuoi tu: gli puoi far credere delle cose, sospettare di uno, sospettare dell’altro, per poi mischiare le carte e portarti a casa il risultato. Perché il giallo è enigmistica, voler scoprire prima del finale chi è stato, o almeno provarci. Van Dine sosteneva che un giallo ben scritto è quello in cui riesci a stupire il lettore fino alla fine e solo con una seconda lettura questo è in grado di individuare tutti gli indizi per risolvere il mistero. Serve dunque fare una scaletta, avere una trama chiara e conoscere il finale per non perderti nella storia, disseminata sì dagli indizi, ma anche da mille altri elementi. Per far funzionare un giallo i conti devono tornare poi tutti.

Hai una laurea in storia contemporanea, quanto ti è servita nel tuo lavoro di scrittore?  

Mi ha dato una metodologia di lavoro. L’approccio da storico mi è servito per consultare le fonti, soprattutto quando ho scritto il dittico Città rossa – Milano criminale e Solo il tempo di morire – in cui ho ricostruito la Milano criminale dal 1958 al 1984. Lì ho scritto un giallo storico, raccontando degli eventi reali ed è stato il momento in cui la mia laurea mi è servita di più: ho usato l’approccio da storico per consultare le fonti, fra giornali del periodo e programmi televisivi. 

A tal proposito, quanto è importante la fase di ricerca e di consultazione delle fonti per la scrittura?

È fondamentale per un giallo: non puoi metterti a scrivere senza aver fatto prima una ricerca. E non mi riferisco soltanto ai luoghi e all’ambientazione. Ma anche alle procedure, i ruoli, i gradi della polizia, chi fa cosa, come avviene un’autopsia, come viene delimitata una scena del crimine… Tantissime persone pensano che scrivere un giallo sia la cosa più banale del mondo. Ma il lettore di gialli fa caso anche alle virgole, è un lettore attento perché oltre a leggere tantissimo è anche abituato alle serie crime, e si accorge subito se inventi: sono lettori esigenti e quindi se non ti documenti il rischio di scrivere una storia che non regge è dietro l’angolo. 

Come si costruisce la suspence in un giallo? 

Non mi stancherò mai di insistere sull’importanza della scaletta: come ottengo altrimenti la suspence in un romanzo di 300-400 pagine? Non a braccio. La suspence la si costruisce a tavolino: ogni 3-4 pagine deve esserci un colpo di scena, un vetro che esplode, un’auto che salta in aria, una porta che viene abbattuta e qualcuno che entra dentro con una pistola in mano. Non possono esserci pagine morte in cui non accade nulla, perché il lettore ti molla e bisogna invece cercare di tenere sempre viva l’attenzione. Come ne Il codice da Vinci di Dan Brown: nelle prime tre righe del romanzo siamo al Louvre e il curatore del museo stacca un Caravaggio e lo sbatte per terra per far suonare l’allarme. Tre righe: tu sei già dentro, hai voglia di andare avanti. Così è il giallo, e suspence e colpi di scena li ottieni ragionandoci prima e costruendo una scaletta dettagliata. Penso anche che tutto quello che si decide di raccontare debba essere essenziale. Mi riferisco alla pistola di Cechov: se racconto che in una stanza è appeso un fucile, prima della fine della scena qualcuno dovrà sparare, in caso contrario si tratta solo di un elemento di disturbo. Raccontare la scena va bene, ma il dettaglio estremo è inutile perché tutto deve avere un senso ai fini della narrazione. Sono i dettagli che poi serviranno per la risoluzione del caso quelli importanti, perché il giallo ha bisogno di ritmo. 

Tre libri - non per forza gialli - che un aspirante autore di gialli dovrebbe leggere o aver letto nella vita.

Venere privata di Giorgio Scerbanenco; 

L’inverno di Frankie Machine di Don Winslow;

La versione di Barney di Mordecai Richler.


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