Il limite è uno stimolo per farci nuove domande sul significato della vita

Il limite è uno stimolo per farci nuove domande sul significato della vita

Sono i limiti a definire chi siamo e quali sono i nostri fini

Maurizio Ferraris
Maurizio Ferraris
04/12/2020 , tempo di lettura 6 minuti

Partire è un po’ morire ma morire è partire un po’ troppo. È partire per sempre. Se la differenza tra naturale e artificiale è in linea di principio insostenibile, risulta perfettamente argomentabile la differenza tra le anime e gli automi. L’automa semplice, lo strumento, può rompersi (un martello si spezza), ma può sempre essere riparato o sostituito. L’automa complesso è programmato per una serie più lunga possibile di successioni on/off (tale il semaforo, il motore a scoppio, il computer) e quanto più complesso è il processo, tanto più l’automa si rivela appropriato al suo etimo (automaton, che si muove da sé), ma questo costituisce una tendenza ideale destinata a non realizzarsi mai perché un movimento completo richiede una finalità interna, mentre la finalità dell’automa viene sempre dall’esterno, per esempio dall’anima che regola il termostato di casa sua. Come non hanno una finalità interna, ma manifestano quella del loro artefice, gli automi non hanno una vita, ma promettono una sopravvivenza meccanica a un vivente che non può risorgere.  


I fini della tecnica

 

La tecnica, che spesso, e a torto, viene considerata la signora del mondo, e la padrona dell’umanità, è sicuramente un grande arsenale di mezzi, di strumenti, ed è dunque “senza fine” nel primissimo senso di una disponibilità pressoché illimitata di risorse. È anche “senza fine” nel senso che gli apparati tecnici, almeno quelli che non sono sottoposti a obsolescenza programmata, possono durare molto più di qualunque organismo. La catena che, a Costantinopoli, impediva l’accesso al Corno d’Oro, così come le mura di Teodosio, sono durate, impassibili, mentre le generazioni di abitanti, imperatori, strateghi si succedevano senza sosta. 

Ma se c’è una cosa che la tecnica ha in modo fortissimo è il fine in un terzo senso, quello dello scopo. Ogni apparato tecnico ha un fine dichiarato: la catena è fatta per impedire l’accesso dal mare, le mura sono fatte per impedire l’accesso da terra, il coltello è fatto per tagliare, l’orologio per dire che ora è, il telefono per parlare e il telefonino per fare quasi tutto. In questo possesso di un fine, la pretesa signora del mondo rivela una debolezza, una subalternità, una soggezione. 

E rispetto a cosa? A un animale, l’umano, che, più debole di altri animali, più dipendente, più instabile, più infelice o almeno più insoddisfatto ha dovuto munirsi di apparati tecnici per rimediare alle proprie mancanze. La cosa più singolare, a ben pensarci, è che questo animale, come ogni altro organismo vivente, non ha fini fuori di sé, quanto dire che non ha senso, possiede soltanto quell’ombra di finalità che si chiama “finalità interna”: crescere, alimentarsi, riprodursi (non necessariamente) e morire (necessariamente). Privo di fini in sé stesso, questo animale ha conferito dei fini agli strumenti che ha creato, e poi, secondo un meccanismo perverso e ricorrente, si è messo in testa di esserne schiavo.  


L'umanità e il limite

 

Ma è schiavo, almeno in questo caso, solo chi crede di esserlo, e magari lo vuole, perché è così comodo farsi comandare, e dà così tanto sollievo dare la colpa agli altri. L’animale umano, come ogni altro animale, è sottoposto all’urgenza del metabolismo e all’ineluttabilità della morte, la cui consapevolezza costituisce l’ossatura del nostro mondo. Che ci siano ospedali e provvedimenti pensionistici, che non si firmino assegni incassabili dopo mille anni, che si faccia tutto il possibile per allungare la vita… Tutto questo non fa che dimostrare come un limite insuperabile penda su ognuno di noi, e si manifesti non solo in una meditatio mortis che il più delle volte ci risparmiamo (e non è poi così saggio, perché il pensiero ci ossessiona ancora di più se lavora di nascosto, suggerendoci incauti lifting e inopinate tinture di capelli), ma in ogni atto della nostra vita, a cominciare da quella attività tipicamente umana che è il consumo. 

Certo, anche una macchina “consuma”, ma solo perché un umano la adopera. E questo varrebbe anche per un’auto a guida automatica, i cui algoritmi sono stati scritti da un altro umano. Troppo spesso confuso con la bulimia e la debolezza mentale, il consumo, se bene inteso, è il proprio dell’umano, ben più che la produzione. Perché se le macchine prima o poi potranno produrre quasi tutto, non potranno consumare. Questo lo sanno fare soltanto gli umani, che infatti esagerano, spendono troppo, ingrassano, si ossessionano per dei beni, cosa inconcepibile sia per una macchina sia per un animale non umano. 

 

Ma proprio qui, ben lungi da una subalternità degli umani rispetto alla tecnica, al sistema, al capitale, vediamo la base della signoria umana sulla tecnica. Uso questo termine antiquato e antipatico perché mi riferisco alla celebre figura della Fenomenologia dello spirito di Hegel. Come sappiamo, sotto l’impressione della rivolta degli schiavi di Haiti nel 1802, Hegel descriveva in questa figura il confronto tra il signore, il padrone feudale che non ha paura della morte, perché è educato al mestiere delle armi, e lo schiavo, che ha paura della morte, e dunque del signore, ma impara a dominare la terra, e a questo punto si emancipa dal signore e dalla sua spada feudale divenuta inutile e anacronistica in un mondo borghese. 

Sappiamo che Marx ha ripreso questa figura per simboleggiare la lotta di classe: l’operaio, che controlla le macchine, è destinato ad aver la meglio rispetto al capitalista, che si limita a possederle e non sa usarle. Ma, e questo è il punto su cui è indispensabile portare l’attenzione, nel momento in cui l’automazione crescente fa sì che le macchine non abbiano più bisogno di operai, questo non significa in alcun modo una presa del potere da parte delle macchine, che esistono solo in vista dei bisogni degli umani, ma, sperabilmente, l’avvento di una condizione umana preferibile, in cui il consumo, ossia il fine di tutto il sistema, in una umanità divenuta più saggia e consapevole (non è mai troppo tardi) possa svilupparsi come cultura e come civiltà. È una utopia? Non mi pare, tutto sembra andare in quella direzione, se guardiamo con attenzione e senza pregiudizi a ciò che avviene e, soprattutto, se non ci lasciamo influenzare dalle distopie che ci inventiamo per sentirci meno responsabili delle nostre azioni, imputandole ai computer, ai telefonini, e magari – perché no? – agli orologi a cucù.  


Ringraziamo Maurizio Ferraris per il contributo.

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