Quiet quitting. Chi se ne va che male fa?

Quiet quitting. Chi se ne va che male fa?

Se c’è da scegliere tra lavoro e vita, lə giovani sembrano avere le idee chiare. Ecco la nostra analisi di un fenomeno che sta rivoluzionando la cultura del lavoro. In modo tutt’altro che silenzioso.

27/01/2023 , tempo di lettura 5 minuti

Rubando per il titolo un celebre verso di Caterina Caselli, abbiamo deciso di riflettere sul fenomeno del quiet quitting con mente aperta, per riconoscere le opportunità che ci offre chi decide di dire basta. Questo è l’approfondimento di una delle tante notizie che potrete leggere sulla prima newsletter di Galileo, la nuova rassegna mensile di Feltrinelli Education Corporate Academy delle notizie più stimolanti dal mondo del business e dell’innovazione. Oggi puntiamo il nostro cannocchiale sul quiet quitting.


In principio fu Great Resignation. Il fenomeno di dimissioni spontanee di massa nato, durante la pandemia di Covid-19, da una nuova presa di coscienza da parte dellə lavoratorə, in particolare under 40: davanti a una crisi sanitaria globale in grado di far tremare le nostre certezze e i pilastri del sistema produttivo, che ruolo e spazio assegnare al lavoro nella propria vita? Come bilanciarlo con desideri, sogni, aspirazioni e affetti che nulla hanno a che fare con la realizzazione professionale e le esigenze del mercato del lavoro? La crisi ha prodotto molte domande, e una generale indisponibilità al compromesso. Una radicalizzazione delle consapevolezze che è una minaccia solo se non se ne sa cogliere il potenziale positivamente trasformativo. Le istanze e le rivendicazioni di chi lascia, infatti, possono essere la traccia da seguire per la costruzione di un habitat professionale e un sistema produttivo capaci di generare più felicità. E dunque maggiore ricchezza. 


In a silent way. Il fenomeno, comunque, è approdato a una seconda fase, ribattezzata quiet quitting. Non più licenziamenti di massa, ma il rifiuto di svolgere tutte quelle mansioni non retribuite o non previste dal proprio contratto lavorativo (straordinari, email fuori orario o nel weekend, supporto o assistenza a superiori o stagisti) pur mantenendo l’impiego. Una presa di posizione che mira a rimettere in equilibrio vita e lavoro, rendendo più equo e sostenibile quel life-work balance tutto spostato verso la produttività. Piatto della bilancia, quello della produttività, reso sempre più pesante da quel tempo di lavoro non riconosciuto e non retribuito a cui ci siamo tuttə un po’ abituatə. Lə quite quitters sono qui a dirci che no, lavorare e basta - lavorare gratis - non dovrebbe essere normale. 


Questione di valore. Tutto è partito da un breve e folgorante video postato su TikTok da Zaid Khan, ingegnere 24enne di New York, che lanciando l’hashtag #quietquitting ha precisato: “You’re still performing your duties, but you’re no longer subscribing to the hustle-culture mentality that work has to be your life. The reality is it’s not. And your worth as a person is not defined by your labor.” Il tuo valore come persona non è definito dal tuo lavoro: una verità che la hustle-culture ha tentato di occultare, funzionalmente a una visione miope di iper-produttività (e a un bel risparmio per lə datorə di lavoro: secondo il TUC - Trade Unions Congress il valore del lavoro straordinario non retribuito nel Regno Unito ammontava nel 2020 a 35 miliardi di sterline). La sovrapposizione totale tra realizzazione professionale e realizzazione personale, infatti, è strumentale a quella retorica che ci spinge a superare sempre ogni limite, ad accettare ogni compromesso, assecondando un modello di leadership iper-burocratizzato e verticale, che ha finito per erodere il terreno in cui si radica e da cui prende nutrimento la stessa capacità produttiva e il valore professionale di chi lavora: la motivazione, l’interesse, la passione. Il “perché lo fai”, cantato in tempi non sospetti dal gruppo indie Lo Stato Sociale.


Prima la persona o lə professionista? In tal senso, è interessante leggere un paio di dati elaborati da Gallup, grande agenzia statunitense specializzata in sondaggi, proprio sul nostro paese: lə italianə sono il popolo che risponde più spesso “il lavoro” (44%) alla domanda su cosa dia senso alla vita; eppure - o forse proprio per questo - sui 38 paesi industrializzati oggetto di indagine siamo tra i primi 10 nella classifica di ansia, preoccupazione, stress e insoddisfazione rispetto al proprio posto di lavoro. La contraddizione è solo apparente. La normalizzazione dell’idea che sia possibile realizzarsi come persone solo realizzandosi come professionista mina, di fatto, alla fonte stessa di una vera, sostenibile e strutturale crescita professionale: la consapevolezza, ovvero, che è piuttosto dalla realizzazione come persona che discende qualsiasi altra affermazione. Unə buonə lavoratorə è una persona felice. I risvolti di questo rovesciamento tossico messo in atto dalla hustle-culture sono innanzitutto sanitari, se l’OMS rileva che almeno 6 lavoratorə su 10 fanno esperienza di burnout lavorativo; con ripercussioni evidentemente anche sulla produttività e la solidità del tessuto professionale all’interno del posto di lavoro. Si tratta, dunque, di immaginare un modello produttivo che sia sostenibile sul lungo periodo sia per chi lavora, sia per le aziende stesse. 


Esistono ormai molti esempi virtuosi di aziende che puntano a integrare in modo positivo vita e lavoro, mettendo le emozioni dellə dipendenti al centro. Per esempio Prysmian, multinazionale leader nel settore delle infrastrutture di rete, ha scelto di avviare in collaborazione con Feltrinelli Education Corporate Academy un ciclo di settimane tematiche, dedicate all’esplorazione e alla comprensione delle emozioni. Ve ne parleremo presto!


Come la stanno prendendo lə manager. Che questo rovesciamento non sia davvero sostenibile è chiaro da tempo soprattutto alle nuove generazioni, ma come sempre i grandi momenti di crisi come la pandemia funzionano da detonatori. E infatti, mentre il tema del quiet quitting smette di essere un argomento di punta e comincia a diventare un tema propedeutico a qualsiasi discussione odierna sul mondo del lavoro, con quasi un anno di analisi alle spalle, ciò che ci sembra interessante non sono tanto i dettagli statistici del quiet quitting, quanto analizzare la reazione alla grande sfida, alla provocazione diretta e sfacciata, che il quiet quitting lancia al sistema. Un’indagine condotta negli Stati Uniti rileva che il 98% dellə manager ha un’opinione negativa del quiet quitting, e il 91% di loro sta prendendo provvedimenti. Sono numeri che preoccupano, perché mostrano una resistenza a capire il problema: un approccio controproducente, se si tiene conto che circa il 91% dellə quiet quitters desidererebbe ricevere maggiore motivazione dallə propriə manager. 


Chi sono lə quiet quitters. Tra entusiasmo, speranza, sconcerto, snobismo e rabbia, per comprendere come il fenomeno agisca nell’opinione pubblica può aiutare adottare una lente generazionale. Sebbene mostri una certa trasversalità, non sorprende che le maggiori adesioni al quiet quitting si registrino tra Millennials e Gen Z: il 50% di loro pratica o approva il quiet quitting, mentre a livello generale il dato si attesta al 25%. Altro criterio di lettura indispensabile è poi, ovviamente, quello di genere. Appare evidente come il moto di rifiuto provenga da condizioni di precarietà e svantaggio. Un prezioso tool online dell’OCSE consente di conoscere quanto lavoro gratuito viene svolto in ogni paese, riportando il gap di genere. In Italia questo gap è particolarmente ampio e ci aiuta a comprendere come sia impossibile parlare di lavoro senza parlare di tutto il resto: tutte quelle mansioni non retribuite che vengono date per scontate nella hustle-culture vanno a sommarsi all’enorme quantità di lavoro di cura che soprattutto le donne devono svolgere quotidianamente. In attesa di risolvere il millenario e strutturale problema della parità di genere, il quiet quitting sta diventando per le donne questione di sopravvivenza, e l’unica alternativa a rinunciare al proprio impiego per dedicarsi alla famiglia. Si tratta di un dramma sociale e culturale dal portato economico importante: secondo l’ultimo rapporto annuale Oxfam, si registrano globalmente 12,5 miliardi di ore in lavoro di cura non retribuito ogni giorno, con un contributo all’economia globale che vale almeno 10,8 mila miliardi di dollari l’anno. Contributo che, per la maggior parte, grava su spalle femminili. 


Dare una risposta al disagio. Proprio per questo, la risposta al disagio da cui si genera il quiet quitting dovrebbe essere ampia, trasversale, strutturale. Non basta infatti riconoscere l’ovvio, e cioè che tutto il lavoro in ogni sua parte e mansione andrebbe retribuito, senza indugiare nelle zone d’ombra in cui prospera la gratuità (lo sfruttamento?). Per agire sul problema, cioè sul sistema, occorre guardare al lavoro come a uno dei moltissimi contesti nei quali si articola la vita privata e sociale delle persone: non basta pagare il lavoro, se i suoi ritmi sono incompatibili con una vita sana e felice. Welfare aziendale avanzato e strutture inclusive possono essere di grande aiuto nel ridurre, per esempio, il gap di genere. Come lo è il riconoscere allə professionistə massima autonomia di gestione del lavoro, rendendo sempre più normale e strutturale la buona pratica del lavoro agile. Pur senza rinunciare, però, ai momenti di confronto e team building che, del resto, le persone intervistate negli studi citati individuano come antidoto alla disaffezione verso il proprio lavoro. Proprio a una maggiore condivisione dovrebbero puntare lə manager, includendo lə dipendenti nell’elaborazione degli obiettivi produttivi, per esempio, e creando momenti di incontro non gerarchico davvero inclusivi e sicuri, che aiutino ogni professionista a sentirsi davvero parte di un progetto, di una visione. Cioè, a sentire il proprio lavoro come una parte bella e positiva della propria vita. 


Per trasformare i paradigmi del mercato del lavoro, bisogna innanzitutto capire le trasformazioni in atto, che traghettano il presente verso il futuro. Proprio alla cultura della trasformazione sono dedicati i seminari che abbiamo curato per Groupama. Presto un racconto su questa esperienza. 


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