Voce, protagonisti, storie, musiche: la costruzione del podcast secondo Matteo Caccia

Voce, protagonisti, storie, musiche: la costruzione del podcast secondo Matteo Caccia

“Non basta parlare davanti a un microfono. Il podcast è un mondo sonoro che ti arriva addosso”, dice Caccia, tra i primi podcaster italiani, che terrà il corso “Come fare un podcast: progettazione, registrazione, pubblicazione”

20/08/2021 , tempo di lettura 8 minuti

“La prima regola del Fight Club include fare un podcast sul Fight Club”, si legge in una delle ultime esilaranti vignette del New Yorker. Basta questo per spiegare la “podcast mania”, partita dagli Stati Uniti e arrivata anche in Italia da qualche anno. Ma se tutto è podcast, niente è podcast. E per fare un prodotto audio di qualità, in un mercato ancora immaturo come quello italiano, “non basta certo parlare davanti a un microfono”, spiega Matteo Caccia, tra i primi podcaster italiani, che per Feltrinelli Education terrà il corso “Come fare un podcast: progettazione, registrazione, pubblicazione”. 


“Il podcast è un insieme di componenti: voce del narratore, protagonisti, storie, musiche”, dice Caccia. “È un mondo sonoro che ti arriva addosso”. E che necessita di una formazione ad hoc. 


Matteo, in che fase è il mercato italiano del podcast?

Siamo nella fase del caos. Il primo vero grande problema è che ancora non esiste un modello di business, cioè non si capisce come il podcast possa essere realmente remunerativo. Quindi è molto difficile avere autori che diventino autori specializzati nel podcast, che campano con quello. Sono tutti autori applicati a quello, ma che fanno altro. Se poi parliamo di editoria del podcast, lì siamo ancora in una fase embrionale. Noi autori di podcast tout court siamo in pochi, siamo ancora quelli che li hanno fatti per primi quattro o cinque anni fa. E già questo la dice lunga. Insomma, siamo nella fase in cui non c’è un modello di business e in cui tutti fanno podcast, convinti che un podcast sia parlare al microfono.


Perché non c’è ancora un modello di business per i podcast in Italia?
Perché i numeri sono ancora piccoli. Se ne parla tanto, ma i numeri sono ancora relativamente piccoli. Però, non c’è stato neanche un vero e proprio investimento da parte degli editori. Mi stupisce ad esempio che dopo il caso di “Veleno”, uno dei podcast di cui si parla sempre, non ci sia stato un giornale che abbia investito sul podcast. Dove per investimento intendo creare una redazione che lavori solo su questo mondo. Non è successo niente, è come se non fosse accaduto nulla. Certo, case di produzione ce ne sono, ne stanno nascendo anche di nuove. Però poi hanno bisogno di uscire sul mercato e affidarsi alle piattaforme di distribuzione. A differenza di Audible, che è editore, produttore e distributore, le case di produzione pure, come Chora, Storie Libere o Piano P, hanno comunque il problema della distribuzione. Devi essere su Spotify, Apple Podcast, Google Podcast ecc. È una giungla in cui non sai bene come districarti.

Cosa dovrebbe accadere?

Quello che io spero che succeda è che i produttori vengano riconosciuti anche come editori. Magari arriverà il momento in cui si ascolta un podcast su Storie Libere o Chora perché sai che quel produttore è anche un editore di riferimento importante.


Dicevi che un podcast non è “parlare al microfono”. Cos’è per te fare un podcast?

Io faccio podcast narrativi, poi ci sono podcast di sport, di cucina ecc. Per me fare un podcast narrativo vuol dire creare un mondo sonoro che ha una storia che guida tutto, composto dalla voce di chi racconta, la voce del protagonista della storia, i suoni che vengono utilizzati, le musiche sfruttate. Per me il mondo del podcast fa parte prima di tutto del mondo dell’audio e il mondo dell’audio non può prescindere da una coralità di cose. Quando parlo della voce di chi racconta, non intendo una bella voce ma una voce che abbia carattere e personalità e che diventi riconoscibile. Questo non è dissimile dal mondo della radio, con programmi storici che non hanno canonicamente delle belle voci ma che sono delle voci potenti e riconoscibili. Il podcast è un insieme di componenti: voce del narratore, protagonisti, storie, musiche. È un mondo sonoro che ti arriva addosso.


Ma quanto conta la serialità?

Più che un requisito, la serialità è una moda degli ultimi anni, che nasce dalle serie tv. Certo è che la serialità ti permette di fare affezionare chi ascolta non solo alla storia ma anche alla voce, a un modo di raccontare e a un mondo sonoro. Quando guardavo True Detective, ad esempio, io stavo bene in quel mondo che avevano creato, anche se non capivo chi era l’assassino e perché lo faceva. Mi piacevano quei luoghi, quelle musiche, la voce dei protagonisti. Questa cosa è uguale per il podcast: prima ancora del contenuto, chi ti ascolta deve avere voglia di stare con le orecchie in quell’ambiente che hai creato. E la serialità è importantissima. Perché alla terza puntata, se chi ascolta è felice di sentire la sigla e la voce di chi racconta, vuol dire che te lo sei portato a casa. Lui avrà voglia di stare lì.

E la capacità di scrittura?
Conta moltissimo. Perché è una nuova capacità di scrittura. Il podcast è a tutti gli effetti un mezzo che non esisteva prima. Certo c’era la radio, e c’è tutt’ora la radio che si è evoluta ed è passata attraverso delle crisi enormi. Sono anni che saltuariamente si dice che la radio è morta. Doveva morire nel 1954 quando è nata la tv, doveva morire quando sono arrivati gli mp3 e non è mai stato così. Si è affinato invece negli anni un metodo di scrittura e autorialità, seguendo i tempi che correvano. Allo stesso modo il podcast seguirà questa direzione. Ma consideriamo che in Italia c’è solo da 5-6 anni: è veramente agli albori. Uno dei grandi problemi ora è creare autori che sappiano scrivere cose che ti catturino, che ti tengano lì e che ti portino in un altro posto con le cuffie che hai nelle orecchie. Da questo punto di vista, c’è molto da lavorare.

Che ruolo ha l’aspetto sonoro?

L’aspetto sonoro è fondamentale perché guida ancora più che le parole. Io posso decidere di aprire un podcast con una persona che parla per due minuti. Se decido di non mettere nessuna musica sotto, metterla prima che parta a raccontare o metterla all’inizio o alla fine del discorso fa tutta la differenza del mondo. Perché quella musica che faccio partire non solo guida il sentimento di quello che sta raccontando, ma soprattutto fa sentire a chi ascolta che ci sono, che non lo sto lasciando da solo ma che c’è qualcuno che ha deciso di fargli conoscere una storia che non conosce. Se c’è una musica in maggiore o in minore traccia la strada e fa la differenza. Il suono racconta ed è parte della costruzione narrativa.


Poi però bisogna pubblicare e comunicare l’esistenza di un podcast per portare gli ascoltatori a sceglierlo.

Pubblicazione, comunicazione e distribuzione del podcast sono fondamentale, altrimenti si ha “l’effetto calciatore”. Cioè quell’effetto che si ha quando gli editori pubblicano il libro di un calciatore: si portano cioè a comprare un libro le persone che sono interessate al calciatore più che all’oggetto libro. Che va benissimo. Ma probabilmente quelle persone non diventeranno lettori di libri e continueranno a essere fan del calciatore. Se faccio fare un podcast a un calciatore, è la stessa cosa. Il grande lavoro degli editori oggi è quella di creare una grande abitudine all’ascolto. Che secondo me è un’abitudine adulta. C’è un’età anagrafica passata la quale tu hai voglia di ascoltare delle cose. Prima di meno.


Occorre una formazione specifica per fare podcast?
Bisogna formarsi ad hoc, ma le regole non sono molte e sono anche abbastanza semplici da seguire. La cosa che fa la differenza per me è trovare la propria voce. Se uno vuole parlare o anche fare documentari in cui non c’è la voce, comunque deve trovare il suo modo di raccontare. Che ha che fare con chi è lui, con la sua formazione, con i suoi gusti e i suoi interessi. Quando faccio un corso, cerco di dare elementi base, che sono quelli che ho imparato io lavorando e che non sono assoluti. Non credo che esista un unico modo di fare un podcast, ma la cosa su cui stimolo le persone è “Cerca una cosa che veramente non vedi l’ora di raccontare”. Poi il modo lo troviamo. Ci sono delle regole, ma moltissimo fa la personalità, il carattere e la capacità di interessarsi e raccontare il mondo di chi lo fa.

Quali sono le due regole più importanti?

La prima regola è che il podcast non è solo la voce di una persona che parla, ma un intero ambiente sonoro. La seconda è che quando si racconta qualcosa devi imparare a entrare e uscire in continuazione dal contesto: zoom in e zoom out; stringere su un argomento e dopo cinque minuti allargare il quadro e osservare il panorama. È come alzare e abbassare la testa in continuazione. In modo che chi ti ascolta può avere respiro per le orecchie e poi torna a guardare dove lo stai portando a guardare. In modo che quando torna ha ancora più voglia di vedere cosa sta succedendo.


Occorre anche imparare a montare o è meglio affidarsi a dei professionisti?

Per imparare a scrivere un podcast, bisogna per forza cimentarsi con i programmi di montaggio. Ma per finalizzarlo, hai bisogno del tecnico e di una persona che lo sappia fare per bene. Il mio corso sarà un corso in cui si cerca di raccontare come si può costruire il proprio podcast, però ci saranno anche delle lezioni tenute da un tecnico del suono.


E invece cosa possiamo prendere in prestito dal mercato americano più maturo?

La prima cosa è l’efficacia del linguaggio. Chi ti sta ascoltando è venuto a cercarti, quindi non hai bisogno di catturare la sua attenzione, ma devi portare da te il suo interesse. A differenza della tv e della radio in cui si “scanala”, con il podcast di solito non capita. Di solito il linguaggio è già indirizzato verso il “Sei con me? Stai con me e ti porto in un posto”. Questa è una cosa che gli americani fanno già con grande attenzione. E poi la serialità l’hanno inventata loro, da “Serial” in avanti. Oltre alla capacità di fare podcast quotidiani, che ha assunto grande importanza con il daily del New York Times. Qualche mese fa il direttore del New York Times per segnalare l’importanza che hanno adesso i podcast ha proprio detto che “il daily è la nostra nuova prima pagina”. Un’affermazione importantissima.


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