Cosa definisce un fumettista, raccontato da Paolo Castaldi

Cosa definisce un fumettista, raccontato da Paolo Castaldi

Qual è la cassetta degli attrezzi di un autore di fumetti e quanto è importante lo stile personale?

21/09/2023 , tempo di lettura 4 minuti

Qual è la cassetta degli attrezzi di un autore di fumetti e quanto è importante lo stile personale? Abbiamo posto queste e altre domande a Paolo Castaldi, illustratore e autore di graphic novel in Italia e in Francia, nonché docente e curatore della nostra Factory del Fumetto, in partenza a ottobre.


In un fumetto, nasce prima la trama della storia o il disegno?

La trama, perché il fumetto ha una missione precisa: raccontare storie. Al massimo un disegno può accendere una scintilla e sussurrarti all’orecchio di continuare a battere quella strada, di scavare, finché una trama viene fuori. Però senza una storia da raccontare non hai granché da disegnare.


Nella tua carriera di fumettista hai illustrato molte tavole e storie partendo da sceneggiature, interviste, romanzi, canzoni. Come si trasforma un testo in un fumetto affinché parole e disegni diventino indispensabili l’uno per l’altra?

È una domanda complessa, perché non sono certo esista una sola formula. 

Io ho sviluppato la mia, con il tempo, imparando ad ascoltare le sensazioni che sentivo durante la lavorazione delle mie tavole. Sono arrivato alla “conclusione” – tra virgolette perché in un percorso artistico non si arriva mai ad una conclusione ma solo a tappe intermedie, una dopo l’altra – che ogni autore debba capire chi è in quel momento, chi può diventare e cosa non sarà mai. Per indole, per talento, per sensibilità e attitudine. 

Solo scoprendo le fondamenta del proprio io artistico si potrà lavorare ad un adattamento che sia centrato, che funzioni. Perché si riuscirà a donare a quei testi scritti da altre mani in altri tempi qualcosa che nessun altro fumettista ha nel suo guardaroba, perché è solo nostro. 

Non migliore, non peggiore: nostro, unico.

Questo può fare la differenza. Questo, e un sincero interesse per il testo su cui si sta mettendo le mani. Non deve per forza essere un’opera in linea con i nostri gusti personali più intimi. Però deve avere qualcosa – un appiglio, uno spunto – che tocchi la nostra voglia di raccontare. Qualcosa che ci faccia esclamare “oh, ecco, questa roba è davvero forte, mi piacerebbe metterla su carta”.


Quanto è importante la tecnica – dalla conoscenza della prospettiva, proporzioni, teoria del colore, tecniche pittoriche eccetera – nel tuo lavoro? E lo stile personale?

La tecnica, nella realizzazione di un fumetto, è come la cassetta degli attrezzi per un meccanico. Più è ampia, più possono variare le tipologie di interventi su cui può lavorare (e quindi guadagnare dal suo lavoro). Se uno ha solo una pinza può diventare il migliore di tutti a stringere i bulloni, e senz’altro questo suo talento gli verrà riconosciuto. Ma farà fatica a muoversi in altri territori perché gli mancheranno le competenze per poterlo fare. 

Quindi la tecnica è importante? Dipende da che autore vuoi essere e da quanto vuoi spaziare sul mercato. Una buona tecnica di base ti consente di lavorare sulle tue storie utilizzando un segno molto personale, poco canonico e, contemporaneamente, realizzare un albo di Diabolik o gli storyboards per il cinema con un segno più accademico; o, ancora, illustrazioni per un libro dell’infanzia. Quindi sì, saper disegnare “bene” può aprire delle porte in più.

Ma se parliamo di fumetto autoriale il discorso cambia un po’. Ho conosciuto disegnatrici e disegnatori dotati di scarsa tecnica ma che sono riusciti a sviluppare uno stile funzionale alla propria narrazione, efficace e incisivo. È tutto quel che serve.

La tecnica può solo aiutarti ad essere più rapido, ad uscire da qualche grattacapo o da qualche inquadratura un po’ più complessa.

Zerocalcare ammette, da sempre, di non saper fare le prospettive. Onestamente, sentiamo la mancanza di prospettive ben strutturate nelle sue tavole? Funzionano perfettamente così, al di là del gusto personale di ognuno.

Non io, ma un maestro del comics come Kubert diceva «Non m’importa di quanto disegni bene. Se non stai raccontando una storia, stai facendo il lavoro sbagliato». E non posso che essere d’accordo.


Lo stile di un artista è qualcosa che cambia nel tempo. Eppure, spesso il pubblico si affeziona al “tratto” che ha consacrato l’artista al successo. Nel tuo lavoro quanto si può sperimentare? Proporsi al proprio pubblico di vecchia data con qualcosa di diverso è un salto nel buio?

A questa domanda ho dato, via via, risposte sempre diverse, andando avanti nel mio percorso artistico. Quindi prendete anche questa con il beneficio del dubbio.

Perché è una domanda che scava in uno degli aspetti più intimi e profondi di ogni autore di fumetto: il rapporto con il proprio alter ego sulla carta, rappresentato appunto dallo stile, dal “tratto”.

Di base, sono d’accordo con quel che diceva Gipi durante un’intervista di qualche anno fa (chissà se pure lui, nel frattempo, ha cambiato idea sulla questione): «lo stile personale è una sconfitta, una resa». 

Adagiarsi su uno stile di disegno solo perché “piace al pubblico” equivale a tirare i remi in barca, lasciarsi andare, trasportati dalla corrente. 

Quando ero più giovane mi sembrava il tradimento più grande che un autore potesse fare a sé stesso e alla sua arte, qualcosa da cui fuggivo senza indugio, cambiando continuamente tratto da un libro all’altro, sperimentando, cercando di evolvere continuamente. Non mi interessava di essere “riconoscibile”. 

Ora, dopo migliaia di tavole pubblicate, con quindici anni di attività sulle spalle, inizio anche io ad essere stanchino. E questo, unito ai ritmi di lavoro che il mercato librario impone, fa sì che il tempo per la sperimentazione venga meno; finisco sempre più spesso nel rifugiarmi in zone di comfort. E ne soffro. Perché l’istinto mi dice di fare un salto nel vuoto, di tanto in tanto. Le scadenze e i piani editoriali invece, non sono così d’accordo.

Vivo quindi un costante conflitto. Vedo il mio segno evolversi, migliorare tavola dopo tavola, ma in un’unica direzione, come fosse su un binario della ferrovia dal quale non si può evadere. Deragliare è un lusso che riesco a concedermi di rado, magari su storie brevi e piccole collaborazioni.

E più hai un pubblico vasto di lettori e più questo conflitto interiore aumenta.

Avere lettori affezionati, che hanno voglia di seguirti nel percorso e di capire la tua ricerca è un lusso relegato alla nicchia. Con tutti i suoi pro e i suoi contro.

Se muovi numeri grossi difficilmente ti viene perdonato un cambio di rotta, escluse clamorose eccezioni. 

Tutto questo discorso, però, credo non riguardi i fumettisti nella loro totalità. Credo ci siano autrici e autori – anche che stimo enormemente – che provano un reale piacere nell’evolversi seguendo per tutta la vita l’alveo che hanno iniziato a scavare nei primi anni di carriera. E forse, chissà, hanno ragione loro.

Sicuramente se la vivono meglio…


Che consiglio daresti ad un fumettista amatoriale o emergente che vorrebbe trasformare una passione in un mestiere?

Cerca di essere sincero con te stesso mentre disegni o scrivi le tue storie. Soprattutto all’inizio che ne hai la possibilità, perché andando avanti, se questo diverrà il tuo mestiere, sarà sempre più difficile. Escono sempre le cose migliori e più potenti quando si riesce a mettere su carta una storia con la massima trasparenza e sincerità d’intenti.

Cerca di avere un approccio gentile ed empatico verso il mondo, questo ti saprà restituire una quantità di storie - se saprai ascoltarlo - che dentro di te non troverai nemmeno in mille vite. Perché da soli non siamo così interessanti. L’ego va bene giusto alle fiere, durante i firmacopie.

Disegna fumetti. Storie a fumetti. Brevi, lunghe, su Instagram, autoprodotte e stampate su carta da fotocopia, come preferisci, ma che siano fumetti. Non fan art, non pin-up, non illustrazioncine carine con la frase ad effetto acchiappa like. Si impara a fare i fumetti facendo fumetti, non disegnando altro.

E ricorda, infine, che ci sono autori eccezionali che non hanno fatto del fumetto il loro mestiere, che fanno altro nella vita (a volte per scelta, a volte perché non c’è stata altra scelta possibile) e che, saltuariamente, se ne escono con una nuova pubblicazione. Alcune di queste pubblicazioni sono capolavori riconosciuti in tutto il mondo, pluripremiati e che rimarranno nella storia del fumetto italiano e non solo. Quindi la mentalità tossica del “se vuoi puoi” dimenticatela, perché viviamo in un mondo che ha creato disuguaglianze tali per cui, per alcuni, un percorso artistico è precluso fin dal principio, al netto della volontà. Ma la potenza del fumetto risiede proprio nella sua povertà di messa in opera. Bastano fogli di carta e una matita. Gli unici materiali che Nikolaj Maslov ha utilizzato per realizzare la sua prima e unica opera, Siberia, in cui racconta vent’anni della sua vita di stenti nella difficile regione ai tempi dell’URSS. Un’opera poi pubblicata in Francia con successo, ostracizzata in patria e che, personalmente, mi ha cambiato la vita, facendomi innamorare della grafite pura, che da allora è diventata elemento distintivo delle mie tavole. Maslov, fino ad allora non aveva nemmeno mai disegnato una pagina di fumetto. Ma aveva una storia da raccontare e una matita per farlo. Non so cosa possa definire un fumettista meglio di così, se non questo…


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