Le persone al centro della tecnologia

Le persone al centro della tecnologia

Si possono bilanciare la qualità dei servizi basati sui dati personali degli utenti e la privacy degli stessi? "C’è ancora molto da fare perché le tecnologie siano costruite e gestite per mettere al centro le persone che le utilizzano, spiega Dino Pedreschi, ma la consapevolezza di ognuno di noi può dare un contributo importante.

Dino Pedreschi
Dino Pedreschi
18/12/2020 , tempo di lettura 8 MINUTI

Il primo marzo del 2015 fu pubblicato un mio articolo su Nòva, il blog diretto da Luca De Biase, intitolato “Il compromesso fra dati e libertàdi cui mi piace citare un brano che credo anticipi una conversazione diventata oggi prioritaria.


Come i nostri dati sono diventati "Big Data"

Nel 2000 gli utenti della telefonia mobile erano il 12% della popolazione mondiale. A fine 2014 sono il 96%, ovvero 6,8 miliardi di persone. I cellulari in circolazione sono il 128% degli abitanti dei paesi sviluppati ed il 90% degli abitanti dei paesi in via di sviluppo. E gli usi che facciamo del cellulare si sono estesi a dismisura, insieme ai sensori incorporati, in grado di registrare posizione, accelerazione, acquisire immagini e video, interagire con altri dispositivi ed ovviamente essere sempre connessi alla rete. L’effetto forse più sorprendente e dirompente dell’umanità connessa sono i dati che ci lasciamo dietro, come 7 miliardi di pollicini digitali. Dati che permettono di osservare le attività umane su scala globale, e quindi di misurarle, quantificarle e, in definitiva, prevederle. Perché solo gli indovini e i consulenti cercano di prevedere il futuro senza dati, come dice il mio collega Laszlo Barabasi. Se invece abbiamo dati dettagliati su un fenomeno, anche inaspettato o bizzarro – un cigno nero – possiamo prevederlo, o quanto meno comprenderlo. Figuriamoci, quindi, se non si possono prevedere tanti aspetti del nostro comportamento quotidiano, come i nostri movimenti o i nostri acquisti, data la regolarità della nostra routine! E quando scopriamo che osservando i “like” che lasciamo su Facebook è possibile capire se siamo gay con una accuratezza oltre il 95%, o che dalle foto che pubblichiamo è possibile stimare il nostro reddito e che dai nostri spostamenti del venerdì è possibile capire se siamo musulmani, ecco che ci rendiamo conto di quanto la dimensione in cui siamo entrati è davvero un passaggio epocale. Niente sarà come prima. Si sta materializzando un nuovo strumento potentissimo, in grado di farci vedere il mondo e la società con occhi che finora non abbiamo avuto. Che può farci prevedere, in futuro, epidemie, instabilità, crisi economiche. Che può aiutarci a prevedere le conseguenze delle nostre decisioni, a livello collettivo ed individuale, e quindi a farci fare scelte migliori, renderci più consapevoli, farci comprendere e magari gestire la complessità della società plurale e interconnessa che abitiamo. Migliorare il nostro benessere. Ma al tempo stesso, Big Data ci trasforma in topolini sotto la lente, micro-organismi sul vetrino del microscopio. E se dai dati è possibile risalire alla nostra identità e alla nostra sfera personale più intima, ecco che possiamo ritrovarci alla mercé degli apprendisti stregoni alla ricerca di presunti terroristi, o di occasioni di business privo di scrupoli. 


Dati, privacy e libertà

Non c’è dubbio che, fino ad ora, Big Data nel nostro immaginario sia soprattutto legato al venir meno della privacy, alla paura della sorveglianza e del controllo sociale, piuttosto che alle magnifiche sorti e progressive legate all’uso dei dati come bene comune. Eppure, non possiamo permetterci di fare a meno di questa sorgente di conoscenza, ne abbiamo assolutamente bisogno per affrontare le sfide della povertà, dell’energia, della disoccupazione, della disuguaglianza, del cibo, dell’ambiente, della salute. Della democrazia. E al tempo stesso non possiamo rinunciare a gestire le nostre informazioni e le nostre comunicazioni in libertà, condividendo ciò che ci va di condividere con chi ci pare e piace – altrimenti va in crisi totale l’idea stessa di democrazia. Quindi urgono soluzioni che possano far coesistere capra e cavoli, conoscenza e libertà. Uso dei dati e privacy. Pia illusione? No. Il fatto che in questa fase iniziale della società misurabile esistano pochi “latifondisti” che concentrano i dati di moltitudini di persone in grandi raccolte secretate non significa che questo sia l’unico modello possibile, né il più efficiente – al contrario, è dimostrato da mille esperienze che l’accesso aperto a dati interessanti stimola creatività, nuove idee di business, nuovi lavori. Il punto è come farlo in sicurezza, in un contesto etico facilitato da una tecnologia responsabile e trasparente. 

Riservatezza su misura

C’è tanta discussione su questi temi in giro per il mondo, e qua in Europa stanno nascendo infrastrutture per la ricerca sui Big Data, come ad esempio Big Data & Social Mining Ecosystem, che mettono l’etica e la privacy al centro. Come? Le linee di attacco sono due: una tecnologia per i dati di oggi, la privacy-by-design, ed un “new deal” per i dati di domani. Privacy-by-design significa tener conto delle salvaguardie per la protezione dei dati personali fin dall’inizio del progetto di nuovi servizi basati su questi dati, in modo da rendere basso il rischio legato alla privacy delle persone coinvolte. Quello che gli scettici del tipo “la privacy è morta” ignorano è che qualità dei servizi e privacy possono convivere. Che la stragrande quantità di servizi rivolti, per esempio, ai cittadini per ottimizzare i propri spostamenti o ai decisori per ottimizzare le reti di trasporto pubblico, possono essere messi a punto facendo leva su dati personali che escono dai sistemi protetti solo dopo essere stati trasformati in modo da rendere trascurabile il rischio che uno specifico utente venga riconosciuto e che le sue informazioni personali (ad esempio, dove va il venerdi sera) siano svelate. … Presto sarà un punto specifico della nuova direttiva europea sulla privacy, speriamo che questo dia una spinta all’uso sicuro dei dati ed eviti la tragedia dei “data commons”, una espressione di Jane Yakowitz della Brooklyn Law School per indicare lo spreco di una risorsa comune di grande valore per una concomitanza di interessi particolari, arroganza, ignoranza, paura e mancanza di regole e di fiducia. Questo per oggi, o al più per domani mattina. 

Avere consapevolezza dei propri dati

In prospettiva bisogna rompere lo schema della raccolta passiva dei dati e far partire la partecipazione, la consapevolezza del valore dei dati di ciascuno di noi. Rendere ciascun cittadino padrone dei propri dati. Ogni anno ogni persona lascia dietro di se circa gigabytes di briciole digitali nei sistemi e nei servizi più disparati che usiamo per le nostre azioni quotidiane: muoverci, comunicare, pagare beni, bollette o cibo, cercare in rete, leggere, giocare, fare sport, smessaggiare, scrivere, postare, twittare, fare operazioni in banca. Una valanga di informazioni personali che in larga parte vanno disperse (come lacrime nella pioggia). Eppure ciascuno di noi potrebbe collegare tutte queste informazioni su di sé in uno spazio personale dei dati. Nessun Google o Facebook ha un simile potere oggi, e dovremmo guardarci molto attentamente dal darglielo in futuro. Immaginiamo per un momento di disporre di questo meccanismo – un “personal data store” – che non si limiti a mettere insieme tutte queste nostre tracce, ma che ne estragga senso e ci proponga una immagine di noi stessi, l’immagine riflessa nello specchio digitale. Ci aiuti a capire i nostri pattern di comportamento, di alimentazione, di spesa, o almeno come questi sono desumibili dalle nostre tracce. E ci dia la possibilità di confrontarci con i pattern della collettività, con possibili alternative, per aumentare la consapevolezza di noi e la capacità di cambiare e migliorare. … Ci sono sfide etiche importanti davanti a noi, ma è chiaro che questa idea di rendere ciascuno padrone dei propri dati cambia il gioco. Se riusciamo a capire l’importanza dei dati personali nella vita quotidiana per semplificare, risparmiare, diversificare, ecco che allora si può pensare ad un ecosistema diverso, in cui i dati possono fluire senza bisogno di concentrarli in grandi depositi centralizzati. In cui ognuno, invece di cedere i propri dati firmando una oscura liberatoria, decide se rispondere o meno a domande da parte di altri soggetti, in base al proprio interesse a partecipare ed alla fiducia dell’interlocutore. … Può sembrare un percorso tortuoso e improbabile, quello che porta all’armonia fra conoscenza individuale e conoscenza collettiva. Ma ci arriveremo. Perché il potenziale della conoscenza individuale, l’energia imprigionata in quei giga di dati personali, prima o poi sarà percepita da molti, e l’onda sarà inarrestabile.”

Dove siamo oggi: la persona al centro della tecnologia

Rileggo queste righe oggi, nel dicembre 2020, e penso che le riscriverei come allora. Alcuni di quegli auspici sono diventati realtà. Dal maggio 2018 è entrata in vigore la General Data Protection Regulation europea, la GDPR, che unisce l’obiettivo di garantire il diritto di tutti i cittadini europei alla protezione dei dati personali con l’obiettivo di facilitare la libera circolazione dei dati personali in un quadro di tutele che garantiscano la fiducia dei cittadini e delle imprese. In particolare, la GDPR prescrive la Privacy-by-design. E sempre l’Europa si è data nel 2020 una strategia per la Data Governance che mira a creare “uno spazio unico dei dati come risorsa essenziale per la crescita economica, l’innovazione, la creazione di posti di lavoro e il progresso sociale in generale, ad esempio migliorando l’assistenza sanitaria, creando sistemi di trasporto più sicuri e puliti, generando nuovi prodotti e servizi, riducendo i costi dei servizi pubblici, migliorando la sostenibilità e l'efficienza energetica”. E di un approccio comune a forme di design, uso e governance responsabile della scienza dei dati e dell’intelligenza artificiale, che sui dati si basa, stanno oggi occupandosi istituzioni globali, come l’OCSE e la Global Partnership on Artificial Intelligence. Con un’idea semplice e forte: riportare l’umano, la persona e la collettività, al centro dello sviluppo delle tecnologie basate sui dati, perché queste ci aiutino ad affrontare le sfide sociali, economiche, ambientali, sanitarie che abbiamo davanti a noi, in modo inclusivo e democratico.

A poco a poco, in questi ultimi anni, sul tema dei dati, è salito il livello del dibattito e degli obiettivi che si mettono a fuoco. C’è ancora molto da fare per colmare il divario fra questi obiettivi e la realtà, come la pandemia ci ha sbattuto in faccia violentemente quest’anno che sta per finire. Ma si è avviato un percorso che potrà portare frutti importanti se la consapevolezza e il contributo di tutti i cittadini lo sosterranno.
La mia lezione sulla voce “Dati” del Dizionario del Cambiamento è un piccolo contributo su questa strada.


Ringraziamo Dino Pedreschi per il contributo.

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