Perché le politiche DE&I non sono solo parole: i numeri delle disuguaglianze sul lavoro in Italia

Perché le politiche DE&I non sono solo parole: i numeri delle disuguaglianze sul lavoro in Italia

Genere, età, origine, condizione economica: cosa ci dicono i dati sulle vere distanze che le politiche DE&I dovrebbero colmare

03/06/2025 , tempo di lettura 3 minuti

Le recenti prese di posizione dell’amministrazione Trump sulle politiche di Diversity, Equity & Inclusion nelle aziende e nelle università statunitensi hanno riacceso il dibattito sul loro senso e sulla loro funzione, e non solo negli Stati Uniti. Un dibattito che in realtà va avanti da tempo - insieme alla critica verso la cosiddetta woke culture – tra chi difende l’importanza e il valore di queste iniziative e chi le considera solo operazioni di facciata, persino discriminatorie nel favorire determinate categorie invece che altre.

Per valutare l’efficacia e la necessità di politiche DE&I in azienda, però, il punto di partenza dovrebbe essere guardare ai numeri delle discriminazioni e delle disuguaglianze presenti nel mondo del lavoro. In quest’articolo cercheremo di darne una panoramica relativa al contesto italiano.


Genere: la distanza più consolidata

Nonostante i progressi degli ultimissimi anni, la condizione femminile è quella probabilmente più rappresentativa delle discriminazioni ancora presenti nei luoghi di lavoro italiani.

  • Occupazione: secondo i dati INPS 2024, solo il 52,5% delle donne tra i 15 e i 64 anni ha un lavoro, contro il 70,4% degli uomini (INPS, 2024).
  • Tipologia contrattuale: il 64,4% delle lavoratrici ha un contratto part-time, spesso involontario. Solo il 18% delle assunzioni femminili è a tempo indeterminato, contro il 22,6% maschile (INPS, Rendiconto di Genere 2024).
  • Cura e carichi familiari: il 34% delle donne tra i 15 e i 64 anni non lavora per motivi familiari, contro appena il 2,8% degli uomini (INAPP, Rapporto Annuale 2024).
  • Retribuzione: il divario retributivo medio è superiore al 20% (INPS, 2024). Il gender pay gap è particolarmente marcato nelle posizioni manageriali.
  • Posizioni manageriali: solo 6 delle 34 società controllate o partecipate dal Ministero dell’Economia e delle Finanze hanno una AD o una CEO donna; lo stesso vale per solo 2 delle prime 50 società quotate a Piazza Affari. In generale, in Italia, ci sono meno AD donna che AD che si chiamano Alessandro.

A queste disuguaglianze, che hanno impatti diretti sulla crescita professionale e l’autonomia economica, si aggiunge la questione delle molestie sul luogo di lavoro: quasi 1 donna su 3 in Italia ha subito qualche forma di violenza al lavoro nel corso della sua vita.


Origine: le persone non italiane sono più esposte, meno protette

Per i settori in cui sono prevalentemente impiegati in Italia, chi non possiede la cittadinanza italiana è molto probabile che non abbia quasi mai a che fare con contesti aziendali e di conseguenza con iniziative e strategie di “Diversity, Equity & Inclusion”.

Eppure, considerando che i cittadini non nati in Italia costituiscono circa il 9% della popolazione complessiva, già questo di per sé è significativo.

  • Presenza nel mercato del lavoro: i lavoratori stranieri rappresentano il 10% della forza lavoro (Ministero del Lavoro, XIV Rapporto 2023).
  • Settori: gli stranieri sono fortemente concentrati in agricoltura (18%), ristorazione e turismo (17,4%), edilizia (16,4%) e servizi personali (30,4%) (Ministero del Lavoro, 2023).
  • Stabilità e diritti: maggiore incidenza di contratti irregolari, lavori ad alto tasso di rischio, minor accesso a percorsi di formazione (CNEL, Rapporto Immigrazione 2023).

Spesso le disparità legate all’origine e al background migratorio si sommano a quelle legate al genere e alla condizione economica.


Background socio economico: la diversità invisibile

Proprio la condizione socioeconomica di partenza è ancora troppo spesso determinante nel mercato del lavoro italiano. Non è solo una questione di reddito ma anche di istruzione e provenienza geografica.

  • Mobilità sociale ferma: in Italia è bassa la probabilità di migliorare la propria condizione socioeconomica rispetto alla famiglia di origine (OCSE, A Broken Social Elevator, 2018).
  • Accesso al lavoro qualificato: chi proviene da contesti svantaggiati ha minori possibilità di accedere a ruoli apicali o ad alta formazione, anche a parità di competenze (Fondazione Agnelli, 2022).
  • Bias culturali: accento, provenienza geografica, capitale sociale ed educativo influenzano ancora pesantemente i percorsi di carriera (Fondazione Symbola, 2023).


 Età: giovani precari, anziani esclusi

Tra le “diversità” che una strategia di diversità e inclusione in azienda dovrebbe valorizzare ci sono anche le differenze anagrafiche: una questione che nei prossimi anni diventerà sempre più centrale a fronte del calo demografico e dell’allungamento della vita media delle persone.

Già oggi, per la prima volta, negli stessi luoghi di lavoro convivono quattro generazioni diverse - di recente, ne abbiamo parlato anche in un altro articolo del nostro magazine. 

  • Occupazione giovanile: il tasso di occupazione tra i 15-34enni è in calo, soprattutto nelle regioni del Sud (ISTAT, 2024).
  • Precarietà: la quota di under 35 con contratti temporanei o a chiamata supera il 35% (ISTAT, 2024).
  • Esclusione over 55: difficile reinserimento lavorativo dopo i 50 anni, con bassi investimenti in upskilling (Unioncamere, Excelsior 2024).
  • Età media in crescita: la forza lavoro invecchia: l’età media dei lavoratori è passata da 39,9 anni (2001) a 42,4 anni (2021) (CDP, 2023).


Le politiche DE&I non sono solo una moda 

Di fronte a questi numeri, dovrebbe essere evidente la necessità di iniziative e strategie capaci davvero di valorizzare le diversità di genere, età, origine e cultura all’interno delle aziende.

Tuttavia, l'adozione di politiche DE&I non può essere ridotta a gesti simbolici. Significa mettere in discussione metriche di performance, modalità di selezione, linguaggi organizzativi, forme di leadership.

Anche perché, investire nella diversità non è solo un imperativo etico, ma anche una leva di innovazione, benessere organizzativo e competitività (di recente, abbiamo approfondito questo aspetto in un post sul nostro canale LinkedIn).

E il dibattito che si è riaperto negli Stati Uniti, con diverse aziende che hanno già deciso di abbandonare i propri programmi di diversità e inclusione, può diventare l’occasione per rendere più concreto l’impegno delle organizzazioni che davvero credono nel valore sociale e strategico di queste iniziative.

Registrati alla newsletter

Segui Arianna, la newsletter di Feltrinelli Education per
non perdersi nel cambiamento: gratis, settimanale, per te!
Segui Arianna