
Perché siamo rimasti solo noi?
Uno straordinario ritrovamento nel cuore della Rift Valley rivela nuove prospettive sulla convivenza tra diverse specie di ominidi e sull’evoluzione umana.

L'articolo è stato realizzato da Francesco Moro all'interno del corso Scrivere di scienza: realizzare un prodotto di divulgazione scientifica, sotto la supervisione di Simone Angioni e dei docenti della SISSA di Trieste. Torneremo in aula con una nuova edizione del corso il 12 marzo.
Koobi Fora, Kenya. Qui, sulle sponde del bacino di Turkana, il più grande lago desertico del mondo, è emerso un nuovo tassello per risolvere uno dei più grandi enigmi del nostro passato: perché, tra tutte le specie di ominidi che hanno popolato la terra, solo noi Homo sapiens siamo sopravvissuti?
In questa località, dispersa tra le colline desertiche della Rift Valley, è emersa una serie di impronte, impresse nella roccia sedimentaria. Un ritrovamento apparentemente marginale, ma non per l’occhio esperto del team di paleoantropologi guidato dal professor Kevin Hatala dell’Università di Chatham, in Pennsylvania.
Nel report pubblicato recentemente sulla prestigiosa rivista Science, Hatala e il suo team descrivono minuziosamente il sito, con un’analisi a tratti più simile a un’indagine forense che a un articolo scientifico.
Un’indagine paleolitica
I sedimenti derivano da un’antica zona di transizione tra un ambiente lacustre e la terraferma e le molteplici orme ivi impresse ci restituiscono un’istantanea della fauna che popolava le sponde del lago: varie specie, antenate di moderni bovini ed equini, e una gran moltitudine di uccelli, alcuni anche di ragguardevoli dimensioni. Ma ad attirare l’attenzione dei ricercatori sono state immediatamente due serie di tracce, inequivocabilmente attribuibili a membri diversi della famiglia degli ominidi.
La prima sequenza di impronte fu lasciata da piedi molto simili a quelli di un essere umano moderno e con uno stile di camminata analogo al nostro, caratterizzato da un movimento a onda, che appoggia in successione tallone, pianta e punta del piede. La seconda serie di tracce invece presenta una morfologia molto distinta, con un alluce molto più mobile, e anche uno stile di camminata più irregolare.
Tutti indizi che hanno portato a una rapida identificazione dei primati che le hanno impresse, due ominidi la cui presenza in quell’areale è ben documentata. Il primo è Homo erectus, uno dei primi membri del genere Homo a mostrare proporzioni corporee e postura eretta simili a quelle umane moderne; il secondo è invece Paranthropus boisei, un robusto ominide strettamente imparentato con le australopitecine, la sottofamiglia a cui appartiene anche la celebre Lucy.
Sebbene fosse già noto che queste due specie furono coeve, la straordinarietà di questo ritrovamento sta nell’incredibile indicazione di simultaneità che esso fornisce. Normalmente, i reperti ossei permettono di stabilire solo se due specie sono vissute nello stesso areale e in periodi di tempo sovrapposti, ma non forniscono informazioni sulle interazioni tra di esse.
Le impronte sulla sabbia invece durano qualche ora, in casi fortunati fino a tre giorni prima di essere cancellate. Pertanto, il fatto che le due serie di impronte si siano fossilizzate assieme ci rivela che H. erectus e P. boisei camminarono sulla sponda dello stesso lago a distanza di qualche giorno, probabilmente persino di poche ore.
Le due specie hanno quindi effettivamente convissuto, non alternandosi nello stesso areale, ma condividendo simultaneamente e frequentando, almeno parzialmente, gli stessi luoghi, quali le sponde degli ambienti lacustri. Quale tipo di interazione potessero avere non è desumibile dai reperti attualmente disponibili, ma ritrovamenti di epoca successiva di entrambe le specie nella zona suggeriscono che questa coesistenza si sia protratta per un lungo lasso di tempo.
Riscrivere la (prei)storia
Diverse specie di ominidi quindi potevano convivere, non necessariamente pacificamente, ma almeno in equilibrio tra loro, per periodi di tempo significativi anche sulla scala paleontologica.
Questa scoperta mette l’ultimo chiodo nella bara della grande sintesi evoluzionistica: la teoria, proposta nella prima metà del secolo scorso, che vedeva l’evoluzione umana come un processo sequenziale, con forme inizialmente più simili a scimmie antropomorfe che divenivano via via più affini agli esseri umani moderni. Parallelamente, questo studio ci fornisce una chiave di lettura innovativa per quella che è invece lo schema attualmente più accreditato per descrivere la radiazione adattativa della famiglia degli ominidi. Questo modello prevede la presenza di numerose specie, anche in contemporanea, che esplorarono diverse possibilità di essere ominidi e, in seguito, uomini, mescolando diversamente le innovazioni fisiche e cognitive tipiche della nostra linea evolutiva. Ora, quelli che potevano essere interpretati come rami paralleli di questo “cespuglio evolutivo” vanno rivalutati come possibili intersezioni tra le specie interagenti, che possono essersi reciprocamente influenzate o, se sufficientemente simili, addirittura ibridate.
Gli altri casi celebri di coesistenza documentata tra ominidi coinvolgono tutti Homo sapiens, l’essere umano moderno, che sappiamo aver convissuto ed essersi persino ibridato con almeno altre due specie del genere Homo: gli Uomini di Neanderthal e gli Uomini di Denisova. Ma queste coesistenze hanno avuto tutte un unico epilogo: l’annientamento della specie rivale.
Se finora rimaneva possibile che l’incompatibilità tra specie differenti fosse un tratto comune della famiglia degli ominidi, gli indizi ora si accumulano a indicare che essa sia un tratto caratteristico della nostra storia.
Ma cosa rende noi sapiens così letali per gli altri umani?
La rivoluzione dei Cro-Magnon
A dire il vero, H. sapiens convisse per un lungo periodo con le specie coeve H. neanderthalensis e H. denisova. Fino a quando una nuova ondata di sapiens provenienti dall’Africa si diffuse prepotentemente e, con incredibile rapidità, si affermò come specie egemone in tutto il globo.
Sono coloro che in Europa divennero celebri con il nome di Uomini di Cro-Magnon, dal nome del sito francese in cui avvenne il primo ritrovamento di alcuni scheletri nel 1868. Questi “nuovi” sapiens erano anatomicamente indistinguibili dai loro predecessori. Cosa rendeva questi uomini così speciali? Cosa permise loro quindi di soppiantare ogni altra specie umana, diffondendosi e moltiplicandosi a un ritmo e con un’efficacia mai visti prima?
La moderna visione dei processi evolutivi è fortemente mutata rispetto a quando Darwin pubblicò per la prima volta L’origine delle specie il 24 novembre 1859. Se i concetti fondamentali della selezione naturale sono ancora, e più che mai, considerati validi, ciò che è mutata è la nostra comprensione delle modalità con cui essa agisce. Rispetto all’opera lenta e costante proposta dai primi darwinisti, oggi riteniamo spesso che le grandi innovazioni evolutive avvengano per salti improvvisi, dopo lunghi periodi di gestazione silenziosa: i cosiddetti equilibri punteggiati. Le variazioni fisiche si accumulano nelle specie in maniera collaterale, su componenti non essenziali, non visti dalla selezione naturale. Fino a quando improvvisamente arrivano a costituire una nuova struttura, che può essere cooptata per una nuova funzione: un fenomeno noto come exaptation. Solo in seguito, la selezione naturale perfezionerà questa struttura per la sua nuova funzione: adaptation.
Questo è esattamente ciò che accadde circa 30.000 anni fa. Le caratteristiche anatomiche che caratterizzano gli esseri umani attuali erano presenti in H. sapiens da almeno 100.000 anni, ma solo allora un sottogruppo di uomini dell’Africa centrale iniziò a sfruttare il pieno potenziale dell’enorme e plastico cervello sapiens, facendo emergere la caratteristica definitiva dell’uomo moderno: il pensiero simbolico.
La capacità di un pensiero non solo intuitivo, come quello dei suoi predecessori, ma anche astratto e capace di contemplare versioni alternative di uno stesso concetto e di anticipare conseguenze future, si rivelò un vero e proprio salto quantico. Questi uomini moderni furono in grado di costruire strumenti e strutture sociali innovative, rimuovendo ogni vincolo ambientale alla propria diffusione. Essi misero sotto una pressione insostenibile non solo le altre specie, ominidi e non, ma anche l’ambiente stesso in cui essi vivevano, causando così l’estinzione dei loro coetanei.
Il futuro degli ultimi uomini
Noi siamo i loro diretti discendenti e nell’arco della nostra storia abbiamo imparato a sfruttare queste abilità in modi sempre nuovi. Sebbene la nostra evoluzione fisica sia rallentata, l’evoluzione sociale e tecnologica di noi sapiens moderni procede, e anzi accelera, a un ritmo esponenziale. Questo sta portando a una sempre maggiore espansione demografica, che a sua volta ci spinge a creare nuove tecnologie e strutture sociali, in un ciclo che si autoalimenta.
Tuttavia, di pari passo, aumenta anche la pressione che esercitiamo sugli ecosistemi in cui viviamo, la stessa pressione che ha portato all’estinzione tutti i nostri parenti più prossimi e di innumerevoli altre specie. Oggi quindi la nostra sfida è di riuscire a domare – e incanalare in nuove maniere e verso nuovi obiettivi – quelle stesse capacità che ci hanno reso la specie umana dominante.
Solo così potremo evitare di estinguere anche l’ultimo ominide rimasto sul pianeta: noi stessi.
Fonti
https://www.eurekalert.org/news-releases/1065964
Kevin G. Hatala et al., Footprint evidence for locomotor diversity and shared habitats among early Pleistocene hominins. Science 386, 1004-1010 (2024).
DOI: https://doi.org/10.1126/science.ado5275
Tattersall, Ian. Il mondo prima della storia. Dagli inizi al 4000 a. C. Raffaello Cortina Editore, 2009, ISBN 9788860302724 (https://www.raffaellocortina.it/scheda-libro/ian-tattersall/il-mondo-prima-della-storia-9788860302724-1154.html)