Fabio Viola: l'uomo che ha intrecciato musei e gaming

Al museo con i videogiochi grazie al game designer Fabio Viola

La storia di Fabio Viola è una di quelle da conoscere assolutamente. Un visionario che ha connesso il mondo del gaming con quello culturale. Scopri la sua storia.

12/06/2021 , tempo di lettura 7 minuti

Fabio Viola, 46 anni, di mestiere fa il game designer. Durante gli studi universitari, ha fondato la sua prima startup con alcuni coetanei conosciuti nei forum dei videogiochi. Poi ha lavorato per diverse multinazionali dell’intrattenimento e pubblicato due libri: il primo, nel 2011, “Gamification – I videogiochi nella Vita Quotidiana”; il secondo, nel 2017, “L’arte del coinvolgimento”. Docente di game design in diverse università italiane, è colui che per primo è riuscito a unire il mondo dei videogiochi a quello dei musei. Cosa che ha già fatto in tre importanti realtà italiane: il Museo Archeologico di Napoli, il MarTA di Taranto e le Gallerie degli Uffizi di Firenze.


Cultura e videogiochi

“Sin da bambino, ho avuto due grandi passioni, apparentemente, in antitesi tra di loro. Storia e videogiochi hanno monopolizzato la mia infanzia e adolescenza”, racconta in una intervista. “Ho frequentato il liceo classico e, nel 1997, ho iniziato a collaborare con le prime riviste online che si occupavano di recensire i videogiochi. Quest’ambivalenza è continuata durante gli anni universitari in cui ho alternato corsi di Conservazione dei Beni Culturali al lancio della mia prima startup dedicata alla creazione di giochi per cellulare”.

Poi arrivò la chiamata di Electronic Arts Mobile, che gli offrì un contratto quando aveva a 24 anni. Questo, spiega, “segnò il mio abbandono definitivo del mondo degli scavi archeologici”. Ma non l’addio alla passione per il mondo dei beni culturali. Ecco perché nel 2016 fonda TuoMuseo, un collettivo che oggi riunisce programmatori, musicisti, designer, artisti e altre professionalità che vengono dal mondo della cultura. “TuoMuseo nasce per dimostrare a me stesso, prima ancora che agli altri, che la combinazione gaming-cultura non è solo possibile, ma può essere anche foriera di crescita per entrambi i settori”.


La scommessa, in effetti, funziona. Il suo primo progetto pilota si chiama “Father and Son”, primo videogame prodotto per il Mann, il museo archeologico di Napoli. Un progetto che ha rappresentato un momento di rottura rispetto al “fare” cultura, in Italia e all’estero. “Father and Son”, spiega Viola, racconta “dell’amore di un padre verso il figlio e di come i manufatti esposti in un qualsiasi museo non siano altro che lasciti emotivi di chi li ha realizzati o ne è venuto a contatto. I popoli e le culture cambiano, mentre le emozioni restano le stesse”. Nei primi tre anni di vita, il gioco è stato scaricato oltre 4 milioni di volte in tutto il mondo e il Mann è diventato così “un attivatore di cultura contemporanea”.


L’arte del coinvolgimento

Viola la definisce “arte del coinvolgimento”, come il titolo del suo libro. “Gamification è sinonimo di coinvolgimento e partecipazione”, spiega. “Imparare a progettare esperienze per e con i pubblici è un primo passo fondamentale per abbattere barriere e favorire un’orizzontalità dei processi”. Un esempio: “Penso a quanto recentemente fatto con la versione in napoletano di “Father and Son” rilasciata a marzo 2020: a realizzarlo sono stati gli studenti di scuole di quartieri ‘difficili’ che hanno collaborato con linguisti in un processo che potremmo definire di ‘classe capovolta’, creando un valore utile, non solo per le ‘nicchie’ (in questo caso linguistiche) ma anche per la collettività: il gioco diventa un detonatore di istanze”.

E se per Viola lo storytelling è ormai superato, perché “ha uno schema rigido in cui qualcuno di ben definito crea un racconto e un pubblico, più o meno ampio, lo recepisce passivamente”, nel mondo dei videogiochi vince lo “storydoing”, con “un approccio più liquido e osmotico in cui il protagonismo individuale diventa parte integrante del racconto”.

Un cambio di prospettiva che permette così ai musei di diventare centri di produzione di contenuti, oltre che di raggiungere pubblici internazionali perché il linguaggio del videogioco arriva in tutto il mondo. In questo modo, spiega, anche i musei piccoli possono farsi conoscere su ampia scala.


Dopo “Father and Son” per il Mann di Napoli, sono arrivati poi “Past for Future” per il MarTa di Taranto e “The Medici Gamer” per il polo museale Gallerie degli Uffizi. I tre enti sono stati tra i primi musei al mondo a utilizzare i videogiochi come formula di fidelizzazione dei visitatori. E in cinque anni, con TuoMuseo, Viola ha realizzato una ventina di questi progetti. Anche per comuni, regioni e teatri. Un esempio è “Life Music”, il videogioco prodotto per il Regio di Parma, il primo videogioco al mondo prodotto per un ente teatrale.


La terza dimensione e le tre C

Di recente, il governo italiano ha riconosciuto i videogiochi come espressione artistica e culturale. “Per me è la realizzazione di un sogno”, dice Viola. “Il collettivo TuoMuseo nasce anche con questa visione, ovvero far conoscere l’identità culturale del videogioco. Sono stati cinque anni di battaglie verbali e ideologiche. Il riconoscimento è sicuramente significativo e aprirà le porte a più produzione e anche a una maggiore comprensione del videogioco come forma d’arte”.


Ora, il suo nuovo filone di ricerca è la nuova dimensione “phygital”, per muoversi tra fisico e digitale, soprattutto dopo l’esperienza della pandemia. L’obiettivo è di trasformare lo spettatore in “SpettAUtore” e creatore, cioè colui che dà il via al processo, e che può finalmente sedersi e diventare spettatore, percorrendo le imprevedibili strade dell’installazione, grazie al protagonismo del pubblico.


Ma come sarà ora il futuro delle istituzioni culturali italiane? “Spero che puntino sempre più sulle Tre C”, risponde Viola. La prima è Creatività, ovvero “che siano luoghi in cui si crei cooptazione con i creativi, dove si possa produrre e immaginare il futuro, come i musei che producono opere d’arte, le biblioteche che diventano luoghi in cui si scrivono e pubblicano libri”. La seconda C è quella di Contaminazione, perché “si sta superando l’idea di verticalità dei supporti, non più separare gipsoteche, mediateche, musei o teatri ma dare vita o riconvertirsi a strutture molto ibride”. La terza C è quella di Collettivo: “C’è bisogno di diverse figure professionali e di dare spazio ai pubblici, intesi come collettivi, che partecipano attivamente alla gestione e alla governance dei centri culturali”. 

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